Il treno indiano

Amo i lunghi viaggi in treno. Ovunque. Ti dicono tanto del paese in cui ti trovi, a patto che tu viaggi nelle classi popolari, quelle superiori sono confortevoli ma tacciono. I racconti dei viaggiatori spesso coincidono con la realtà, a volte ricalcano lo stereotipo come sulla Transiberiana, che ho percorso da Pechino a Mosca. Come passi il confine tra la Mongolia e la Russia i passeggeri tirano fuori vodka, salame e formaggio e ti offrono di banchettare con loro, bevendo fino a scivolare nel lungo sonno sulla cuccetta. In India tutto è diverso, figuriamoci i treni, resta inalterata l’offerta di cibo, l’alcol si azzera, l’ospitalità si amplifica a dismisura. Dieci anni fa avevo imparato un hindi sufficiente a tenere i primi due minuti di conversazione e gli indiani ne restavano scioccati, abituati al superbo distacco della dominazione inglese e si gonfiavano d’orgoglio, loro al contempo tanto nazionalisti e assurdamente convinti di non valere quanto noi. In un attimo sulla carrozza si diffondeva la voce e accapavano persone e intere famiglie per conoscermi. E poi il treno intero mi prendeva in custodia, offrendo coccole e protezione fino a destinazione. Dieci anni dopo ricordo ancora alcuni trucchi per vivere bene queste lunghe notti di Sleeper Class, i vagoni notturni che si possono permettere tutti. Alcuni li avevo dimenticati, come mettere qualcosa di morbido dentro la borsa da viaggio, il mio cuscino, nel punto in cui appoggeró la testa. Ma il più importante lo ricordo: offrire ai compagni di scompartimento qualcosa da mangiare comprato prima di partire, ché gli indiani sono ghiotti di schifezze. Da lì parte la banda, sempre, anche con i più ostici come Fakhruddin e Signora, coppia di anziani rajastani di rientro dalla visita alla figlia a Mumbai. Non parlano una parola di inglese ma mangiano volentieri e così iniziamo a parlare questa lingua di nessuno che accomuna i popoli sentimentali, basata sulla gestualità, la mimica e qualsiasi altro strumento assolva il compito di comunicare con l’altro. Non scambierei tutto il welfare scandinavo per quest’apertura mediterranea. Mi continuano a parlare, non conosco una singola parola che usano ma la musica della loro lingua mi fa stare incollato al racconto. Alla fine capisci pure tutto ed è il tuo turno. Io ho raccontato quello che ho appena scritto e prima di scendere dal treno ho chiesto di fare una foto per ricordarmi i loro volti dai lineamenti ruvidi ma dolci. L’ultima volta che li ho guardati era uguale alla prima, si passavano un piccolo quaderno di versetti in arabo, che immagino tratti dal Corano, salmodiando sottovoce, dentro di loro. Adesso mi intristisce il pensiero che non ci vedremo mai più e allora apro la loro foto, mi concentro sul loro volto come a spremere succo da un’arancia. Fuori dal finestrino l’India é una grande luce che ci beve tutti.

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