Lettera da Gavdos, l’isola delle utopie

Gavdos è l’isola delle utopie. L’anziano alla cassa dell’alimentari mi chiede che giorno sia. Non lo so, gli dico. Dopo una breve indagine, concordiamo che forse è lunedì. Nel lembo di spiaggia accanto al porto lillipuziano di Karave l’acqua è turchese e i bagnanti sono nudi. L’isola è piccola, neanche trenta chilometri quadrati, ma è anche una grande area naturista. Il naturismo è praticato in ogni spiaggia e, come noto nei giorni a seguire, a volte anche nei caffè. Anche il campeggio è libero e praticato dalla maggior parte degli ospiti dell’isola, anche perché i posti letto complessivi non superano il centinaio. La libertà è un residuo dell’utopia degli hippie, che invasero la Creta meridionale creando un avamposto del movimento a Matala, a poche ore di navigazione da qui, con le sue grotte scavate dal vento di Levante e affacciate sulla spiaggia rossa di un piccolo villaggio di pescatori improvvisamente travolto da un’onda anomala di avventurieri con le chitarre in spalle e le borse piene di charas. Da qui passò anche Joni Mitchell, la testimonianza del suo passaggio è in una delle sue canzoni più belle, “Carey”. I figli dei fiori non se ne andarono se non dopo anni, vivendo una sorta di ritorno al tempo in cui l’uomo, cacciatore e raccoglitore, viveva alla giornata nelle caverne, libero dalle ansie dell’uomo moderno. Anche il cielo, a Gavdos, è un portale su altre dimensioni: qui vengono appassionati di astronomia da tutto il mondo ad ammirare un cielo altrove scomparso. Nella notte dell’isola la via Lattea è visibile come un semaforo in una strada di una generica città sul continente. La distanza tra Gavdos e il mondo circostante è subito netta eppure dall’altra parte la costa libica ruggisce un altro mondo, un contrasto spettacolare se non fosse la tragedia umanitaria che è, quella dei viaggi della speranza dei migranti attraverso il Mediterraneo, l’utopia di una vita facile che ora non c’è più neanche dall’altra parte. L’ultimo barcone è arrivato qui pochi anni fa, per qualche giorno sull’isola i clandestini superavano numericamente i locali, censiti in circa neanche duecento unità. Per un attimo mi immagino di essere un grande uccello, capace di coprire la distanza con la costa africana in un volo: da una parte saccopelisti in vacanza, dall’altra la fame che ti morde e ti spinge a fuggire, da una parte una ragazza prende il sole nuda in mezzo a uomini nudi che non la guardano neanche, dall’altra una sua coetanea non può scoprire il volto pena la lapidazione, da una parte gli uomini si spalmano la crema solare, dall’altra propaggini dell’Isis e divisioni della Wagner imbracciano le armi le une conto le altre, da una parte dio non c’è e dall’altra tutto accade secondo la sua volontà. Per la maggior parte il sogno di Gavdos dura due settimane all’anno, per pochi è una scelta di vita come un gruppo di russi di tutt’altra specie, cercatori alla Nikolaj Konstantinovič Rerich, che trascorse la sua vita tra poesia e pittura cercando gli dei alle pendici dell’Himalaya. Ma cosa si può venire a cercare, cercare davvero, a Gavdos? L’immortalità, perché secondo alcuni studiosi Gavdos altro non è che il nuovo nome dell’antica Ogigia in cui la dea Calipso offre a Ulisse la salvezza dalla morte per trattenerlo sull’isola. Così dopo Chernobyl una dozzina di russi, tutti filosofi-scienziati-artisti, scappa qui. Si sono beccati le radiazioni, la leggenda vuole che alcuni di loro lavorassero nella centrale, quindi sono dei condannati a morte. Ma credono che l’aria di mare e il lavorare la terra, a contatto con la natura, li possa ripulire. Ci aggiungono meditazioni, vibrazioni e un lavoro sull’energia del mondo, quindi anche del nostro corpo. È la ricetta, quantomeno, per sopravvivere alla contaminazione, l’utopia è sconfiggere il tempo. Un prete ortodosso regala i terreni dove, ancora oggi, sorge la loro piccola comune. Nel punto più a sud dell’isola, e d’Europa, gli utopisti russi hanno posto una grande sedia vuota rivolta a nord. Si chiama Tripiti, loro sono nel paese dietro la montagna, è una baia che non si può dimenticare. C’è una ragazza che vive sotto un cedro, lavorandone il legno, una presenza irreale che ogni anno torna tra Creta e Africa la sua estate indiana, la sua utopia solitaria. C’è la grotta di Calipso che ha l’utopia opposta di liberarsi dalla solitudine a cui gli dei l’hanno condannata, la mitologia la descrive profondissima e aperta su un bosco sacro con le ninfe, sue schiave, che cantano. Ci si arriva dopo una bellissima camminata di una manciata di chilometri e, in qualche modo, si resta là per sempre. Anche adesso, mentre sono sulla nave per continuare il viaggio, sento quello sversamento. Decido in questo momento di scrivere un libro sulla Grecia, perché scrivere è il mio modo per salvarmi dalla morte. Lo chiamerò “La Grecia è l’India”, perché i confini se li è inventati qualcuno che aveva deciso di non alzarsi più dalla sedia. Per chi si muove, non c’è separazione tra Occidente e Oriente, tra la vita e la morte, tra io che scrivo e tu che leggi sentendo queste parole vibrare come se fossero tue. Lo sono.

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