Un’intervista a Vittorio Lingiardi sulla strage di donne

Un’intervista a Vittorio Lingiardi sulla strage di donne in corso da anni, su cui si fa poco e si parla troppo, entrambe le cose a vanvera.


Professore Vittorio Lingiardi, da psichiatra, ci aiuti a capire: come è possibile che un ragazzo considerato da tutti un ‘bravo ragazzo’, un ragazzo ‘normale’, può diventare un maniaco del controllo, una persona possessiva e gelosa fino al punto di uccidere?
«Cosa è “normale”? Chi è un “bravo ragazzo”? Anche se la psicoanalisi ci mette in guardia rispetto al concetto di “normalità” e ci insegna che esiste la “normopatia”, cioè la tendenza eccessiva a uniformarsi alle regole sociali e l’incapacità di coltivare la propria originalità creativa, rispondere a queste domande in teoria non dovrebbe essere difficile. Tutti noi abbiamo un’idea di “bravo ragazzo” e di “vita normale”. Un’idea legata al buon senso, non necessariamente conformistica, che nasce dalle nostre esperienze e dal nostro sistema di valori e credenze. Ma la personalità è un oggetto di studio complesso. Spesso le azioni violente hanno una decifrabilità e una prevedibilità legate alla storia psichica di chi le compie, persone con evidenti tratti psicopatici, sadici o gravemente paranoidi. Ma la personalità non è solo ciò che appare in superficie: ci sono parti nascoste, silenziose, segrete, a volte dissociate, che a un occhio allenato o attento sono più riconoscibili, ma che in alcun casi, per fortuna pochi, non lasciano prevedere, anche dal punto di vista clinico, la possibilità di azioni estreme. È un discorso che può valere per l’omicidio, ma anche per il suicidio».
«Il mio lavoro mi impedisce di generalizzare, ciascuno ha la sua storia e per scelta professionale non azzardo mai letture psicopatologiche di persone che non ho conosciuto per mezzo di colloqui e test clinici. Un partner violento, uno stupratore e un omicida sono figure diverse sul piano psicopatologico. Questo non mi impedisce di dire che alla base di molte azioni violente compiute dai maschi contro le femmine c’è sempre un terribile intreccio di fattori culturali collettivi e di fragilità psichiche individuali. Per esempio, la convinzione implicita che la donna sia un possesso, un oggetto da controllare e dominare; che la relazione sia una palestra dove esercitare il proprio potere. La presenza di questi pensieri e dei comportamenti, anche non appariscenti, che ne conseguono, può essere considerata un “segnale”. Ma è importante sapere che sono orribili tentativi di esorcizzare i demoni della propria ammalata mascolinità. Una mascolinità primitiva, fragile e violenta che rifiuta ogni lettura complessa delle relazioni personali. E soprattutto che ignora, perché lo teme, nel violento abisso del proprio senso di inferiorità, quel dialogo indispensabile tra autonomia e dipendenza di cui si nutre l’amore autentico».
È una trasformazione psichica che può capitare a tutti o c’è una sorta di ‘predisposizione’?
«Alcuni aspetti della personalità (siamo sicuramente sul versante maligno della personalità narcisistica) che in particolari condizioni relazionali e spesso, va detto, sotto lo stimolo di sostanze, esplodono in comportamenti violenti. Un’anestesia completa delle facoltà empatiche fa sì che l’altra persona venga disumanizzata e vista solo come un ostacolo da eliminare. È una violenza onnipotente che toglie di mezzo la donna che dice “posso fare a meno di te, voglio fare a meno di te”. Un affronto intollerabile che mette in crisi l’idea grandiosa di sé e l’idea della propria donna come madre che ti deve accudire e schiava che ti deve ubbidire. In questo corto circuito psichico e morale, può farsi strada la tenebra, anche transitoria, della sopraffazione, dell’eliminazione dell’altro per mettere a tacere gli spettri della propria inconsistenza. Siamo di fronte a pseudo-identità con livelli minimi di autosufficienza. Quelle che, fino al penultimo momento, fanno dire ai vicini di casa: “era un bravo ragazzo, un ragazzo normale”».
È possibile affrontare queste situazioni da un punto di vista terapeutico?
«Purtroppo non ci sono ricette. Credo in una diagnosi, non solo individuale, anche sociale e culturale, che ci aiuti a riconoscere le condizioni a rischio. Si continua a ripetere che l’educazione all’affettività nei contesti scolastici è fondamentale, ma si fa ancora pochissimo. E ovviamente credo nella terapia individuale… Ma la terapia ha bisogno di motivazione e consapevolezza, anche minima, del proprio disturbo di personalità e della propria abissale fragilità emotiva. La terapia chiede di prendere in considerazione sia la possibile violenza del proprio mondo interno sia la dipendenza inevitabile che governa ogni relazione. Dove la terapia individuale non arriva, per la semplice ragione che il potenziale paziente non la richiede o è refrattario, è necessaria, ripeto, una “terapia sociale”. Fatta di educazione, studio, ascolto di testimonianze dirette. Fatta di esempi. Un’educazione capace di decostruire i pericolosi stereotipi di genere dai quali ancora oggi molti ragazzi e ragazze sono condizionati. In un mondo sempre più virtualizzato dobbiamo tornare a insegnare il rispetto dei corpi e delle relazioni»
(Le domande sono di Alessandra Ziniti, da Repubblica.it)

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