Viaggio in Corea del Sud
Benvenuto in Corea si dice
한국에 오신 것을 환영합니다

“Tetto dopo tetto, in onde d’infinite curve, la città cresce e avanza. Si arrampica sulle colline, scompare e riaffiora nelle valli. Si srotola giù lungo il fiume, si gonfia di lucidi grattacieli e labirinti di appartamenti moderni per perdersi nelle linee verdi e azzurrine dei monti lontani avvolti di brume. Seoul: un corpo gigantesco che respira, si espande, forte, vibrante, sicuro di sé, pieno di vita e di speranze. Ai sudcoreani piace chiamare la loro capitale: ‘la bellezza allo specchio’. Stupenda e inafferrabile.”
Tiziano Terzani

A Seoul vicino al mio albergo c’è questo quartiere alla vecchia, si chiama Iksedong, in cui la sera la gente del posto si riversa dagli uffici dai mercati da chissà dove a caccia di un tavolino da barbecue coreano e una birra. Uno spettacolo.

Il giardino segreto del palazzo reale Changdeokgung. Seoul con i suoi mille volti diversi, uno accanto all’altro in aperto contrasto. Silenzio e rumore, pagoda e grattacielo, viuzze e strade a sei corsie, carpe e uomini con la ventiquatro ore eccetera. Per chi viaggia per provare le emozioni più disparate, un idillio.

Una camminata di una decina di chilometri lungo un ruscello che attraversa i grattacieli, tagliando in due la città. È la passerella del fiume Cheonggyecheon, magia delle magie di Seoul.

Il giardino segreto del palazzo reale Changdeokgung. Seoul con i suoi mille volti diversi, uno accanto all’altro in aperto contrasto. Silenzio e rumore, pagoda e grattacielo, viuzze e strade a sei corsie, carpe e uomini con la ventiquatro ore eccetera. Per chi viaggia per provare le emozioni più disparate, un idillio.

Per un drogato di mercati popolari come me, il Gwangjang Market di Seoul, il più grande e antico della Corea, è uno sterminato batticuore.

Bukchon è un villaggio tradizionale coreano di seicento anni fa nel cuore della Seoul metropoli futuristica. Un silenzio irreale pervade ancora le sue strettoie.

Il Lago Cheongpung dal Monte Bibong, regione di Chungcheongbuk come-fosse-antani ovvero nel mezzo alla Corea del Sud. Un bel salto da Seul a qui, guidando per tre ore dal traffico di una metropoli di venticinque milioni di anime alle curve dolci, ingemmate di ciliegi in fiore, della montagna coreana. È la parte del viaggio che preferisco, quando ci si lancia nella pancia di un paese sconosciuto. La parte dello stupore.

Ci sono luoghi che ci chiamano. A volte sono monumenti, altre intere città, in ogni caso entità note che ci chiamano a sé e noi obbediamo. Altre volte sono posti che non sapevamo esistere, che arrivano inaspettati, dopo l’ennesima curva generica. Allora accade quello stupore nel sentire l’incontro tra noi e il mondo in un angolo casuale eppure particolare. Sentire che è bello essere nel mondo in questo luogo, in questo attimo. Un pensiero senza pensatore, ancora per qualche momento, poi si accende la coscienza, le fantasie volteggiano nel riconoscere che è la prima e probabilmente l’ultima volta che passeremo di qui. Eccola, solenne, la nostalgia di chi non è ancora andato via. Allora scatti una foto, fai un bel respiro e poi riparti, verso il prossimo posto, il prossimo attimo, la prossima nostalgia. Quella di chi non è ancora arrivato.
(nella foto, un respiro nella campagna coreana)

La primavera in Corea.

E poi sono andato a far due passi sul lago Jusanji, il set di uno dei miei film preferiti, “Primavera, estate, autunno, inverno… E ancora primavera” di Kim Ki-duk.

“Losing is winning” dice il cartello sul sentiero che si arrampica sulla montagna, verso la tomba de monaco che settecento anni fa fondò il tempio di Guinsa, Sangwol Wongak. La scalinata, puntellata di gradini in legno è in perfetto stato di manutenzione, in stile coreano, ma è ripida, non è breve ed è l’ultima di una continua serie, perché Guinsa è in gotico tibetano, sali continuamente, tutto si sviluppa in ascesa. La salita dei mistici, da San Giovanni della Croce a Maometto a Milarepa a Zarathustra eccetera, la trovi in ogni religione. Una metafora della ricerca di chi sta più in alto delle nostre preghiere, che passano dalla voce, dal corpo depurato dalla fatica. Lungo il percorso ci sono queste monache anziane, che non sai come abbiano fatto ad essere arrivate anche soltanto fin lì, per giunta prodigandosi in inchini vertiginosi davanti a ogni podio o guglia recante l’effige del Buddha. Penso che faranno questo sentiero fino alla fine, si lasceranno morire qui, salendo un giorno si accasceranno sul dorso del tempio. Le sorpasso, voltandomi sorrido ma non mi vedono neanche, sono in trance. Così arrivo in cima dall’ombra fitta della foresta alla luce spettacolare del poggio in cui è posto la tomba. È un posto magnifico, la sensazione di pace è irreale e mi do un pizzicotto perché quando ci si immagina morti ci si immagina di arrivare in un posto così, nella migliore delle ipotesi si intende. Ma sono vivo, davanti alla tomba del fondatore di Guinsa. Non si possono fare foto, non si può camminare oltre, non si può fare niente. Si fa il niente, si fa il niente con lo “zazen”, meditando seduti sulle panche davanti al piccolo palco che delimita il sepolcro. Lì vanno a inchinarsi una dopo l’altra le monache che alla spicciolata arrivano quassù. Che scena: loro, gli inchini, il poggio, il tempio sotto, il cielo sopra, il silenzio e il canto dentro il silenzio degli uccellini. Ho un anello al dito in cui ho fatto incidere la formula vanmorrisoniana “no guru no method no teacher” ma quanto mi piacciono i buoni monaci, le azioni semplici e le indicazioni aperte di chi riesce, è evidente, ad alleggerire la mente.

Il villaggio hanok di Hahoe, valle di Andong, Corea

Viaggio per vedere coi miei occhi come vivono altrove fratelli e sorelle del mondo. Certo i monumenti, sì alle attrazioni non affogate dai turisti, ma il senso del mio viaggiare accade quando mi muovo attraverso quei posti in cui si vive e basta, come me e come te. Così mentre mi facevo un’idea dell’itinerario della Corea ho notato tutta questa costa da esplorare e nessuno che ti consigliava di andarci. Funziono al contrario in questa e tante altre cose, quindi per me è diventato un itinerario obbligatorio. Allora ho acceso il motore della macchina a noleggio e mi son messo in viaggio lungo la costa orientale della Corea, nella stradina malmessa che si snoda come edera a filo del mare, tra villaggi di pescatori tra reti a galleggiare, alghe ad essiccare e spiagge selvagge, un tuffo dentro un’umanità sorniona, di ombrelloni e canne tese, di lavoro sporco per le cucine di Seul, Busan e Daegu, di una strana pace mediterranea eppure davanti al Mar del Giappone.

La classifica dei ponti più belli che abbia mai visto inizia dalla posizione numero 2, la 1 è occupata dal Ponte Vecchio a Firenze che fa parte della mia vita e su cui non riesco ad essere oggettivo. Poi è una dura lotta tra i Sospiri, Diavolo, Hermitage, Brooklyn, U Bein, Lakshman Jula, Carlo, Neuf, Mostar… E aggiungo alla lista il Ponte Woljeonggyo a Gyeongju. Un sogno per gli occhi da un altro mondo e un altro tempo.

Busan!
(dopo incontro boschivo ravvicinato con non uno ma due serpenti letali per l’uomo, Rhabdophis Tigrinus ovvero l’unica specie animale conosciuta sia velenosa che tossica per non farci mancare niente, soltanto quella volta che ebbi un incontro altrettanto ravvicinato con una tigre mentre facevo un trekking nella giungla nepalese col mio amico Tikka ho desiderato così fortemente una grande e rassicurante città, l’asfalto delizioso, il grattacielo paterno, la metropolitana feto)

Guarderei i coreani vivere, vivere e basta, per giorni. Se Shantaram dice che gli indiani sono gli italiani dell’Asia e i giapponesi i tedeschi, un antropologo spagnolo che li conosce bene ha scritto che i coreani (del sud) sono gli spagnoli dell’Asia. Perché son focosi e vivono di sensi, si ha simpatia o orrore dei loro eccessi, si affacciano sul mondo da tanti mari diversi, escono da una dittatura negli stessi anni eccetera… Ma soprattutto: ci si sente bene, tanto, in mezzo a loro, da stranieri.

E infine, quanta bella musica coreana. Sei ore di playlist che mi ha accompagnato in viaggio, una canzone per autore/band, dagli anni 60 ad oggi, dal rock alla psichedelia, dal k-pop all’elettronica.