Viaggio in Oman

Al Khaluf è uno di quei posti in cui non ci arrivi per caso. A cinque ore da Muscat e altrettante da Salalah, ci si arriva attraverso la lunghissima strada che taglia l’Oman dal golfo che guarda l’Iran fino al confine con lo Yemen, poi si imbocca la deviazione che taglia il deserto oppure lungo la spiaggia, azionando le quattro ruote motrici sulla pista della risacca. I turisti vengono con i tour organizzati. O non vengono proprio. Io solo all’idea di avere uno che mi sta addosso tutto il giorno, magari pure per più giorni, che per giunta pago io, mi fa mancare l’aria. Così, come ogni volta, mi son messo a inventare un modo mio per viaggiare, che il viaggio lo apra invece di chiuderlo. Dopo altri tentativi andati a vuoto, qualche settimana fa ho scritto a tutte le strutture ricettive della zona, quattro o cinque, per di più case messe a disposizione di omaniti in vacanza o lavoratori stagionali. L’unico a rispondermi è Alì, la sua casa ha una sola recensione a due stelle in arabo, intraducibile pure per Google Translate, deve essere l’equivalente di una bestemmia toscana. Mi piace. Messaggiamo per settimane su WhatsApp, io cerco di capire se è un tipo apposto, lui se ci sto con la testa. Mi dice che sono pazzo a voler andare sulle Sugar Dunes a piedi dal paese, io insisto e lui cede: ci porta lui col suo pick up, ok my friend. Scende apposta da Muscat, ci porta e ritorna a casa. Chiunque abbia viaggiato in paesi islamici sa che nessuno sa coccolarti come un buon musulmano e avevo già sentito parlare della peculiare ospitalità omanita, ma va oltre l’immaginazione. Alì è alto, più di me, ha ventitre anni e la voglia di spaccare il mondo, si vede da come guida nel deserto, punta sempre il passaggio più ostico e rimbalziamo sulla sabbia per mezz’ora prima di arrivare. Venire qui a piedi sotto il sole, devo ammettere, è il suicidio perfetto. Le dune di zucchero sono un deserto incredibile, mai visto niente del genere. Sono stato nel Sahara e nel Thar, con le classiche dune rosse. Anche nel Gobi le ho viste di quel colore, sotto la neve. Qui sono bianchissime alla luce del sole. E finiscono direttamente nell’Oceano Indiano. Pazzesco. Purtroppo la festa sta finendo, oppure sta iniziando a seconda della prospettiva: sta aprendo un resort vicino, inizierà anche qui il turismo vero. Alì mi racconta la storia del paese, ci sono migliaia di barche, le tipiche dhow omanite, vengono da tutta l’Asia a pescare in questo mare. Lo salutiamo, facciamo una lunga camminata su una spiaggia bellissima, attraversando un gruzzolo di ville e villette omanite poi andiamo in paese e lì sono capanne, rottami e sfacelo, come si prospetta la spiaggia si riempie di barche sfondate, reti stese e paccottiglia ovunque. In mare sembra schierata la marina dell’Apocalisse. Quando scendiamo dalla macchina a noleggio sono tutti brutti, sporchi e gentili con noi. Tutti ci guardano, ci guardano anche i gabbiani e i cormorani, forse anche i pesci prima di essere attraversati dalla lama. Quando ero da solo in India passavo intere serate con gente di questa risma, con una donna al fianco è diverso. Non succede niente eh, ma una donna qui in mezzo non può starci bene. E infatti non ci sono donne, letteralmente: neanche una. Se Manganelli negli anni Cinquanta va in Cina e si chiede che cosa faranno i sindacati quando arriveranno i cinesi, che lavorano sedici ore al giorno, mangiano una ciotola di riso, dormono e ripartono da capo senza battere ciglio, io mi chiedo che cosa faranno le nostre femministe di queste centinaia di milioni di uomini così nel mondo. Mi viene in mente la Murgia che diceva: in un mondo di sole donne si cammina nudi per strada di notte. Qui è l’esatto opposto. E grazie ad Allah, il cui richiamo accerchia il paese dal megafono della moschea, non gira una goccia di alcol, altrimenti sarebbe davvero l’inferno. Viaggiare è, nel bene e nel male, anche rendersi conto del pianeta in cui viviamo, della vita che facciamo e che fanno gli altri esseri viventi ad altri meridiani rispetto a quelli in cui siamo stati misteriosamente assegnati alla nascita. Penso anche che loro sono il prezzo da pagare per la vita da privilegiati che facciamo, sempre meno è vero, in Occidente. Poi mi dico che non c’è verso, nonostante anni di Asia il senso di colpa cattolico resta il primo filtro con cui guardo la disparità intorno a me. L’alternativa è la ruota del karma, spero che il prossimo giro possa andare meglio per questa gente. Oppure resto senza risposte e con tutte le domande intonse. Fatto. Ci facciamo mettere pakora e samosa in una busta a un baracchino, cucina indiana da consumare sulla terrazza vista mare dei genitori di Alì, che sono tornati con lui a Muscat. Cinque minuti di strada e ritornano le villette omanite. Siamo soli, con gruzzoli di bambini che giocano per strada, ricomincia l’Oman e finisce il Pakistan. Ed è tutto un altro stare. In tutta l’Arabia ci sono migliaia di villaggi come questo, abitati per pochi mesi all’anno da pescatori del Kuwait, del Bangladesh e di altri paesi musulmani dell’Asia che si danno il cambio. Io, se avessi una agenzia di viaggi, porterei la gente in questi posti dopo aver visto le migliori attrazioni. Perché le dune bianche del deserto sono incredibili, ti restano negli occhi. Ma non bastano, servono altri sguardi per sentire i luoghi, farteli restare nel corpo. Al Khaluf mi resta come luce negli occhi e angoscia sul torace. La notte, le stelle sono tante e luminose quanto lo sono le barche dei pescatori in mare.
(Altre foto sparse che mi va di condividere)







