“Ambulance Songs”, perché parlare di musica che salva la vita se parliamo di poesia che cura

Un mio saggio breve per la rivista Poetry Therapy Italia

Il racconto della nascita di un un blog (www.ambulancesongs.com) e ora di un libro attraverso le parole appassionate degli autori, dei musicisti e delle tante canzoni che ci hanno salvato la vita… e se non l’hanno fatto, potrebbero. Un blog che rappresenta una versione senza confini della stanza-rifugio in cui in tanti ci siamo nascosti dalla vita con le nostre canzoni come unico appiglio dalla disperazione, il dolore, la tristezza e tutti quegli altri momenti che si frappongono tra una felicità e l’altra. 

Un mio saggio breve per raccontare perché è terapeutico scrivere di musica attraverso la mia esperienza, i culti dell’antica Grecia, gli esperimenti del 1800 al Pennsylvania Hospital, gli studi di James Pennebaker e colleghi, le canzoni di Lou Reed, il progetto collettivo di Ambulance Songs e molto altro ancora. Buona lettura a chiunque sia interessato a scoprire cosa accada quando una canzone, e scrivere di quella canzone, ci salva. Sul n.2 di Poetry Therapy Italia, grazie al comitato scientifico della rivista. Di seguito un invito alla lettura di Salvatore Setola e un estratto dall’articolo, che continua al link indicato

Invito alla lettura, di Salvatore Setola

“Da profano ho sempre pensato che ci troviamo psicologicamente “in pericolo” quando le nostre Muse si spengono. Quando, pur non essendo artisti, quegli impulsi creativi che ci connettono al nostro io profondo, e ai quali diamo voce anche in modo passivo, iniziano a sembrarci superflui, inessenziali per la nostra vita. Una fase del genere l’ho passata e ne sono uscito anche progettando un libro autobiografico sulla musica con un amico. Lo stesso amico che, da psicoterapeuta, cura se stesso e gli altri attraverso percorsi di poetry therapy e scrittura collettiva intrecciando – come lui stesso spiega in questo saggio breve – esperienze lontane e diverse nel tempo e nello spazio; dal suono di Pitagora che ristabilisce l’ordine del cosmo fino all’armonia interiore portata da un accordo di Nick Drake.”

“Ambulance Songs”, perché parlare di musica che salva la vita se parliamo di poesia che cura
Luca Buonaguidi

Occorre venerare il canto liturgico come fosse la sillaba Om,
con Om infatti si inizia il canto liturgico.
Ora spiegheremo…
(Chandogya Upanishad I,1,1)

La poesia è indissolubilmente connessa a una tradizione oggi considerata autonoma, la musica. Come scriveva Giovanni Papini (1932, p. 172), “la poesia è fatta di musica messa in parole”.
Se la musica nasce con l’universo, si pensi all’Ohm (Aum), il suono primordiale che con la sua vibrazione ha materializzato il mondo, la poesia nasce con l’uomo come “suono alla ricerca di un senso” (Bertoni, 2006, p. 23): “Lo stato poetico consiste nel crearsi un’anima musicale per fare eco a un canto che venga da fuori” (Dufrenne, 1981, p. 208). La poesia è indissolubilmente connessa a una tradizione oggi considerata autonoma, la musica. Come scriveva Giovanni Papini (1932, p. 172), “la poesia è fatta di musica messa in parole”.

Poi, è fra il VII e il III secolo a.C., nell’ambito della letteratura greca, che la poesia si emancipò progressivamente dal rito e poi dalla musica, fino a distinguersi chiaramente come una forma sempre più autonoma di discorso letterario solo nel Medioevo. Ma ancora oggi musica e poesia vivono una relazione di complementarietà che va oltre la comune radice e la lunga tradizione di accompagnamento iniziata con aedi, emuli di Orfeo dotati di lira, trovatori provenzali, minnesanger alto tedeschi, laudisti ed esecutori di corte.

Riconosci quale ritmo regge gli uomini.
(Archiloco, fr. 105-6)

Questa complementarietà è testimoniata innanzitutto dal residuo musicale depositato in ogni poesia, il ritmo, secondo il poeta Octavio Paz “il più radicato e primitivo degli istinti” (in Gardini, 2007, p. 73): una poesia non deve necessariamente avere rime, ma ha necessariamente un ritmo. Non c’è poesia senza ritmo, perché questo, togliendo alla parola singola il suo significato ordinario, “lo ricotruisce tra le parole” (Antomarini, 2013, p.44). Morrison scrive che “nella poesia il ritmo è una risposta emozionale al pensiero”: il ritmo sarebbe così il “battito del cuore della poesia” (1987, p.91-92). Questa ripetizione avrebbe la qualità ipnotica “che aiuta a creare un “luogo secreto”, il ponte per l’inconscio da cui la poesia sorge” (Longo, 2009, p. 5)”, “per andare verso qualcosa, per quanto non si riesca a capire che possa essere questo qualcosa” (Paz, in Gardini, 2007, p. 87).

Le arti tutte, ma più specialmente la musica e la poesia,
possono stimarsi due lampi balenati da un medesimo sguardo di Dio.
(Guerrazzi, n.d.)

Alle origini i confini della poesia non erano così definiti, confondendosi sia con forme religiose (testi liturgici, racconti mitici, testi funebri), sia più generalmente con i canti, cioè con i testi musicati, religiosi o profani: tutte le religioni utilizzano tutt’oggi il suono per curare e rinnovare lo spirito, incrementando la consapevolezza dell’hic et nunc paradossalmente attraverso un abbassamento della coscienza vigile (Morrison, 1987). Per esempio nella tradizione sufi della danza dei dervisci rotanti, le vocali vengono usate per liberare il corpo e aprirlo alla danza. Questo perché il ritmo “provocata la perdita d’identità individuale, la ripristina attraverso la sua traduzione in parole” e “provoca uno scambio tra suono e visione” (Antomarini, 2013, p.54). Per questo Mallarmé sosteneva che “il verso è ovunque nella lingua vi sia ritmo” (in Calasso, 2001, p.110).

Nei tempi mitici la lingua era “un misto di parola musicale e canto privo di scopo; il carattere primordiale della lingua sarebbe dunque quello già intuito da Vico, per il quale i balordi autori delle nazioni, spinti da violentissime passioni, crearono le prime lingue cantando. La lingua-musica non ha scopo pratico, è pura espressione. (…) I concetti logici furono originariamente immaginati in forme personali: in dei, che all’inizio i primi poeti-teologi, secondo l’intuizione vichiana, si finsero e si cedettero. In questo stadio estatico, ninfale, del linguaggio, la parola parla per parlare, apparendo sotto forma di dio momentaneo.” (Moretti, in W.F. Otto, 2005, XVIII, XVIV)

Per questo Jaynes indica che “i primi poeti furono dei” e “la poesia dunque era il sapere divino (1984, p.429). Era la poesia di Mosè a indicare al popolo come e quando condurre l’arca sacra; fra gli antichi popoli arabi la parola poeta sta per “colui che sa” per avere ricevuto questa sapienza dagli dei; il poeta e il veggente sono la stessa cosa secondo una lunga tradizione che parte dal principio della civiltà fino a Rimbaud. Per questo e altri motivi, “la poesia era il linguaggio degli dei” (p.431) e se oggi la poesia viene scritta, negli uomini dell’antichità era cantata e questo perché la musica era un eccitante neurale delle percezioni allucinatorie degli dei. Non a caso il nome stesso della musica deriva dalle Muse, a cui i poeti si appellavano privi di coscienza come noi oggi ci appelliamo alla memoria verbalizzata per sforzarci di ricordare.

È stata una fantasia persistente: la prima lingua che gli uomini hanno parlato era musica, poesia e scienza allo stesso tempo. All’inizio era una stessa parola, insegnata da Dio o dettata dalla natura, sapeva dire le cose, i sentimenti, le leggi. E nell’immagine che ci si compiaceva di formarsi di questa facoltà nascente, non solo non erano ancora apparse la distinzione tra parola e canto, la differenza tra potete espressivo e potere di designazione oggettiva, ma l’uso sacro e l’impiego profano del linguaggio non si erano ancora posti come domini separati: nella grande festa dei primi tempi, qualsiasi termine era celebrativo e portava in sé la sostanza del reale designato. Investita da un senso integrale, la parole raggiungeva le cose e godeva della felicità del contatto con esse. Ogni presenza che l’uomo nominava era per lui un dio o un rappresentante di una divinità. Così, grazie a una rivelazione benigna e a una ispirazione esatta, la prima lingua univa in sé la pienezza di un sapere alla pienezza musicale del proprio potere espressivo.
(Starobinski, 2011, p. 69-71)

Orfeo fu il primo degli uomini-divini toccati dal sacro fuoco della poesia. Secondo il mito, Orfeo è fatto a pezzi dalle baccanti ma la testa recisa del poeta, approdata a Lesbo – il luogo sacro nella tradizione musicale del secolo VIII – ancora canta in versi, ispirata da Apollo, e li detta a Museo che li trascrive. “Ogni poeta si sentiva un Museo, il primo discepolo di Orfeo” (Antomarini, 2013, p.46).

Julia Kristeva (1984), nota linguista, psicanalista e filosofa, sostiene che la poesia “deriva da una area semiotica di esperienza corporea presimbolica strettamente legata al ritmo”, oltre che alla sensazione (Maltby, 2008, p. 20). In questo senso Orfeo, il primo poeta-divino, tradurrebbe la musica degli dei in un ritmo comprensibile agli uomini, senza per questo svelare il mistero della visione di questi – echemuthìa, in greco – un impegno del cantore a mantenere il riserbo circa le verità ultime, solo accennandole attraverso la ricomposizione tra un suono che cela un mistero e la comunicazione linguistica (Antomarini, 2013, p.47). Per questo, la notevole sensibilità umana al ritmo nasce “dalla profondità del sistema nervoso, da quegli strati arcaici in cui vibra ancora il tamburo dello sciamano” (Koestler, 1975, p. 301).

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