Cose belle che ho visto, sentito e letto negli ultimi tempi

Cose belle. Iniziamo da un progetto pazzesco. Da qualche mese ha aperto Earth.fm, “come Spotify ma con i suoni della natura”. Dai rumori degli insetti notturni della foresta amazzonica a quello delle onde nel golfo della Thailandia, passando per i versi dei fenicotteri nella Camargue. Clicca nella foto qui sotto per accedere alla radio ma attenzione, crea dipendenza.

Non riesco a levarmi dalla testa una poesia d’amore del VI Dalai Lama, Tsangyang Gyatso. Reincarnazione dissoluta di Avalokitishvara, il bodhisattva di cui tutti i Dalai Lama sono emanazione, è stato quello che potremmo definire un dandy tibetano dedito alle donne, la caccia e l’arte. Era amato dal suo popolo, ma non incline a governare le sfide politiche del suo tempo, in un Tibet animato da lotte tribali e nella morsa del Celeste Impero. Fece una brutta fine. Le sue poesie sono bellissime, e riflettono il conflitto interiore di quest’incarnazione troppo sensibile, sciolta sempre in favore dell’esperienza quotidiana dei sensi. Questa è una delle più belle poesie d’amore che io abbia mai letto ed è stata scritta oltre tre secoli fa in un monastero sull’Himalaya.

Quel giorno
Ad occhi chiusi fra il fumo degli incensi
Ho sentito all’improvviso
Le sacre parole della tua preghiera.
Quel mese
Ho fatto girare tutti i mulini di preghiera
Non per espiare i peccati
Ma solo per toccare la polvere delle tue dita.
Quell’anno
Ho percorso genuflettendomi i sentieri di montagna
Non per un’udienza
Ma solo per toccare la tua dolcezza.
In quell’era
Ho girato intorno a monti, fiumi e pagode
Non per prepararmi a una migliore rinascita
Ma solo per incontrarti lungo la via.

“Winning Time” non è soltanto la storia della dinastia dei Lakers di Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar ovvero la squadra che ha cambiato la storia del basket ma una Cent’anni di solitudine spremuta in una stagione e con la sede spostata da Macondo a Los Angeles alla fine degli anni 70. Realismo magic(o) applicato allo sport più bello del mondo, in cui la storia è divorata dal mito e ne vale la pena anche soltanto per la drammatizzazione di Jerry West come tipico caso di monomaniaco. La scena di coach McKinnney che medita basket come un tibetano nel gompa, l’alternanza di pellicole vintage per mescolare il girato e una colonna sonora pazzesca ne fanno un capolavoro di forma oltre che di sostanza. Sostanza tipo l’evoluzione di questi dialoghi, vedi il detto “il maestro arriva quando l’allievo é pronto”.

Ci sono dei libri che una volta letti ti permettono di alzare gli occhi verso il cielo e sapere cosa sta accadendo in quel mistero immenso da cui veniamo tutti e a cui un giorno torneremo. “Il mulino di Amleto” è uno di quei, rari, libri:

“Sulle rovine di questa grande costruzione arcaica mondiale si era posata la polvere dei secoli quando i greci entrarono in scena; pure, qualcosa di essa sopravviveva nei riti tradizionali, nei miti, nei racconti fiabeschi non più capiti. Intesa alla lettera, essa fece maturare i culti sanguinari rivolti a procurare la fertilità, fondati sulla credenza in un’oscura forza universale di natura ambivalente, cosa che oggi sembra monopolizzare i nostri interessi. Eppure i suoi temi originari potevano ancora mandare lampi di luce, conservati quasi intatti, anche a distanza di tempo, nel pensiero dei pitagorici e di Platone. Questi, tuttavia, sono i frammenti di un tutto che è andato perduto, seducenti e sfuggenti insieme; fanno pensare a quei “paesaggi di nebbia” di cui sono maestri i pittori cinesi, che mostrano qui un masso, lì il timpano di un tetto, laggiù la cima di un albero, lasciando il resto all’immaginazione. Anche quando il codice sarà stato decifrato e le tecniche ci saranno note, non potremo pretendere di misurare il pensiero di quei nostri lontani antenati, avviluppato com’è nei suoi simboli. Non più si odono le loro parole per le molte età trascorse…”

Il disco per obliarsi in questa giornata di voti e proclami e altre storie pedanti é “Ode to Quetzalcoatl”. Una manciata di canzoni composte per risalire la china della depressione indotta dall’assunzione quotidiana di LSD a cui Dave Bixby si sottopose a lungo. Uno dei più grandi dischi acid-folk, pura luce in fondo all’abisso.

Davanti agli scherzi del destino si può sempre provare a reagire, come insegna il sogno americano. Oppure ci si può arrendere, lasciando che la vita faccia il suo corso, scegliendo, magari in modo avventato, di essere pronti a tutto. C’é un termine russo che descrive questo abbandono, “pofigismo”: esprime una rassegnazione disperata ma assieme gioiosa di fronte agli avvenimenti imprevedibili che scaturiscono dalla assurdità del mondo. E’ con questa emozione particolare che i protagonisti di “Scompartimento n.6” si incontrano in viaggio verso il buco del culo del mondo, il grande nord nella Russia degli anni 90. Un paese guasto come i due protagonisti, in cui non funziona niente come nelle loro vite. Eppure arriva qualcosa che salva, che trasforma la sfiga, la solitudine, il sentirsi lontani da tutto e da tutti, proprio quando arriviamo fino in fondo alle cose. Ha vinto mille mila premi, è un film da vedere e che resta anche per capire qualcosa di più di questo strano paese diventato da tre mesi definitivamente inaccettato. E di cui invece non si può fare a meno, lasciamo perdere la politica io lo dico proprio in un altro senso. La Russia é un sentimento enorme quanto la geografia che le da forma. Sono così triste all’idea di non poterci tornare a tempo indefinito, eppure questo film è stato come quel viaggio sulla Transiberiana d’inverno. Parla di tristezza, ma rende felici.

Capisco chi dice che Franco Arminio non scriva belle poesie. O che non scriva proprio poesia, ma il mandare a capo un discorso. Il mio punto di vista però è un altro, quello di uno psicologo che legge in questo discorso qualcosa di profondamente salutare per chi legge, nel XXI secolo vorace, questo invito a disertare “la pretesa di essere e avere”. Dunque un discorso da mandare a memoria, come si faceva appunto una volta con le poesie, che erano un farmaco da Epidauro a Tenochtitlan, motivo per cui gli antichi egizi mangiavano i papiri su cui erano scritti i canti per avere un effetto benefico immediato. In questo senso Arminio oggi forse è più uno psicologo che un poeta, e siccome la psicologia ha più a che fare con la poesia che con la scienza mi pare che il cerchio si chiuda. 

Questa canzone alla fine di Afterlife è un’imboscata che farebbe cedere anche il più resistente alle lacrime. Se nonostante Joni Mitchell non ti sei commosso nel finale apoteotetico di questa serie puoi startene certo: sei spaventato dai sentimenti. E allora basta premere play di nuovo, magari ti serviranno altre 2 o 3 volte ma alla fine Ricky Gervais ce la farà anche con te. Perché Afterlife è un balsamo che districa anche i nodi più resistenti. Una piuma sull’anima per qualche ora, e poi se ne sente eccome la mancanza.

La cosa più bella che ascolteremo quest’anno. Una playlist di Four Tet di 155 ore, creata per condividere le migliori scoperte da ascoltatore di uno dei migliori musicisti in circolazione. Musica letteralmente da tutto il mondo e di ogni epoca, di cui una parte personalmente caricata su Spotify dall’autore. Più che una selezione di canzoni è una opera d’arte a sé stante (link nel primo commento).

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