La guerra ai giovani
Un mio articolo per il giornale Kulturjam
La guerra ai giovani è una costante delle generazioni di adulti in crisi, minacciate da eventi imprevedibili e cambiamenti epocali. Si pensi alla guerra mossa alla generazione entrante degli anni 60, culminata simbolicamente nel colpo di fucile a Dennis Hopper e Peter Fonda in Easy Rider e nei tanti, tantissimi giovani ammazzati nella realtà, dalle proteste in piazza, alla chiamata in Vietnam fino al dilagare mirato dell’eroina.
Anche la guerra al popolo della notte non è una novità, con la guerra alla tribù di raver degli anni 90 e l’invenzione del razzismo musicale; con le leggi contro la musica ad alti battiti per minuto emanati dal britannico “Public Order and Justice Act” del 1994 che vietando “eventi dove la musica include suoni pienamente o predominantemente caratterizzati dall’emissione di una successione di battiti ripetitivi”, metteva fuori legge la cultura rave. Ottenendo solo di renderla itinerante e dando via alla stagione dei rave traveller.
La guerra ai giovani, oltre che opportunista, è figlia dell’analfabetismo funzionale della nazione campione nella disciplina. Mascherina, distanziamento e gel riducono, non annullano il rischio di contagio. Non percepire la distanza abissale tra questi due predicati verbali è un problema giovanile solo nel senso che chi gli adulti che se ne fanno portavoce avrebbe dovuto aver più cura della propria istruzione in età scolare.
Era ovvio infatti che riaprendo non saremmo stati nei livelli di contagio immediatamente post lockdown. Se si deve convivere con un virus ormai endemico, non si possono cercare untori e capri espiatori sempre nuovi ogni 100 casi in più. In tal senso il coro di voci post lockdown erano tesi a spronare le persone a far ripartire i consumi.