I morti per Covid non sono colpa dei vivi

La narrazione più tossica intorno al Covid-19 è che questa pandemia sia stata causata dal comportamento delle persone, e non dalla natura del virus in sé. Che questi morti siano una colpa da attribuire ai vivi, che questo virus sia un prezzo da pagare per i loro peccati. Per essere sopravvissuti. L’insinuazione di una colpa soggettiva nella trasmissione aerea di un virus contagiosissimo è stata cavalcata dai media e la politica per intascare click e consenso, scaricando la responsabilità degli organi comunicativi e politici sui cittadini ma è stata creata dalla nostra cultura, che é anche la religione su cui si fonda.

Nessuna altra religione al mondo sostiene che sia colpa mia e tua per il figlio di Dio ucciso sulla Croce. Che si nasca con un Peccato Originario da spurgare attraverso un atteggiamento penitente nei confronti della vita. La malaria negli anni 90 uccideva oltre un milione e mezzo di persone all’anno. Numeri non dissimili dal Covid-19, ma in un’area assai più ristretta. Tuttavia nessun senegalese, etiope, indiano, laotiano ha dovuto subire l’affronto di una narrazione incriminante per la puntura di una zanzara come quella in atto in Occidente. Quello che per un asiatico o un africano è impensabile, era già accaduto dalle nostre parti coi napoletani, cui è stata lungamente inflitta l’identificazione con il colera, come agli omosessuali con l’AIDS. La colpa di non aderire ai dettami della cultura dominante, che sia l’industrialismo o l’eterosessualità, si espia attraverso un male che sceglierebbe accuratamente le sue vittime, facendo le veci di un Creatore che millanta di perdono ma opera attraverso il castigo. Validi studiosi hanno indicato persino nel puritanesimo protestante della Merkel la disastrosa austerità inflitta ai partner europei, poi la punizione spettacolare inferta al popolo greco.

Siamo anche la religione che ispira la nostra visione del mondo, dunque, sempre. E il cattolicesimo è alla base dell’adesione spontanea al senso di colpa per le vittime che grava insensatamente sulle spalle dei sopravvissuti in questi 10 drammatici mesi di pandemia. Eppure secondo Fabrizio De Andrè e altri autorevoli esegeti della figura di Cristo, Gesù era “il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”, un uomo con il coraggio di seguire la sua visione e di non piegarsi alla cultura del suo tempo. E non l’uomo per cui noi ci ripieghiamo nella colpa, come inteso da San Paolo che fu persecutore di cristiani prima della conversione. Eppure la sua colpa è diventata la nostra. Come scriveva un altro santo di tutt’altro avviso, San Giovanni della Croce, che è anche uno dei miei poeti preferiti: “Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei”. Lasciamo andare allora la colpa, l’imputazione al prossimo del male che ci circonda e il riverbero delatorio con cui giudichiamo le vite degli altri.

La morte é il grande rimosso dell’Occidente travolto dal Covid-19, a differenza di altre nazioni che hanno saputo contenere la diffusione del virus senza farsi prendere dal panico della morte incombente. Perché Cina, Vietnam, Senegal, modelli nella gestione della pandemia, sono culture che non hanno rimosso la morte. Noi ci eravamo dimenticati della morte come condizione a cui è soggetta la vita. Abbiamo persino oscurato quell’arte capace di confrontarsi con i fantasmi e l’abbiamo sostituita con l’intrattenimento. Ed è per questo che il governo quando si attiva per dare respiro ai cittadini riapre i centri commerciali e non i teatri. Perché gli acquisti sotto le luminarie placano più del “Canto di Natale” di Dickens quell’ansia di morte che è alla radice della festività pagana del Natale: sono i giorni avvolti per più ore nell’oscurità.

A marzo la riscoperta traumatica della morte ci ha gettato nel panico, perché col mito del giovanilismo inseguivano l’annullamento dell’invecchiamento, quella fase in cui della morte si prende consapevolezza. Siamo diventati quelli incapaci di fare anche solo un minuto di silenzio, ci siamo inventati l’applauso per il caro estinto per non stare neppure un attimo dentro il misterioso e abissale momento di “distacco interno da tutte le cose” da cui veniamo e a cui, forse, torneremo. E un virus che condanna le persone a morire da sole, senza poter contare sull’affetto dei propri cari, è la più amara delle circostanze per quella cultura che ha coltivato l’illusione di rimuovere la fine delle cose. E davanti a questa consapevolezza, continuiamo a fuggire, inventando sempre nuove colpe per salvare la nostra anima dalla propria, presunta, colpa. Ma questa colpa che ci hanno detto gravi dalla nascita sulle nostre spalle, semplicemente, non c’è. Si è vivi, vivi e basta, dentro qualcosa di più grande. Non sappiamo davvero nient’altro. Tutto il resto è una cultura che ci opprime da secoli e da cui forse, prima o poi, ci libereremo. E saremo infinitamente più leggeri.
Delle religioni orientali che ho frequentato ho capito davvero soltanto una cosa: vivere non è una colpa.
Ed è questo il pensiero che vi invito a pensare.
A respirare.

Nella foto, le distese montane a oltre 4000 metri d’altezza sopra Litang, Tibet cinese, dove ancora oggi si pratica la sepoltura celeste, il rito buddista che prevede che un corpo venga restituito alla natura e a questo scopo viene offerto agli avvoltoi dopo una piccola cerimonia per consacrare il passaggio di stato. I parenti non sono presenti, perché dopo una settimana si ritiene che quel corpo sia ormai un mero contenitore dell’incarnazione che vi visse. Ogni lunedì e giovedì all’alba, gli avvoltoi si assiepano sul pendio in basso, come nella foto. Arriva un camioncino, con i corpi dei defunti. Un monaco consacra e scarnifica il corpo, due aiutanti tengono lontani gli avvoltoi. Poi, in 5 minuti, il corpo sparisce dentro una nuvola furiosa. Resta la scatola cranica, che viene spaccata e mischiata alla farina d’orzo, poi offerta ad un solo avvoltoio scelto. La cerimonia vista con i nostri piccoli occhi occidentali è sconvolgente. E’ un posto dove si va a lasciare qualcosa e io mi sono separato definitivamente da tutte le credenze che avevo sulla vita e sulla morte fino ad allora. Non so dirvi se sia meglio o peggio. Ma da allora, quando mi sento vivo, cerco di farci caso. Per esempio, adesso.

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