Verso il Monte Athos e oltre. Diario di un viaggio sulle strade del Mediterraneo

Il sentiero di Rainer Maria Rilke e laggiù il Castello di Duino in cui iniziò a scrivere uno dei libri di poesia più belli di sempre, le Elegie Duinesi. Noi eravamo venuti qua per rileggerle sul posto ma 6 ore dopo sullo stesso panorama divampa un incendio ormai enorme, che lambisce pericolosamente il paese. Un acquazzone improvviso forse ha appena salvato questi posti dall’irreparabile. Sto assistendo a quello che domani si spera assurga definitivamente alla categoria “miracolo” o un più umile “culo”. E gratitudine infinita per la protezione civile, i forestali, i pompieri e i volontari all’opera.

Qualcuno la chiama la Piccola Parigi, ha dei vialetti che ricordano quelli di Atene, poi se inizi a camminare in salita a volte sembra di essere a Lisbona. Ma sono tutti d’accordo sul fatto che si chiami Trieste e io mi unisco al coro di coloro che da qui sono passati e non l’hanno dimenticata. E chissà com’era ai tempi in cui D’Annunzio invece che tumulato nel bronzo era più vivo che mai decollando alla volta di Fiume e i soliti negozi di merda oggi ovunque erano altri particolari locali come botteghe e caffè carbonari, strani covi in cui Freud covava la psicoanalisi e Joyce, Svevo e altri la scrivevano.

Io la Slovenia me la immaginavo con gli orsi sulle alpi e invece sembra una sterminata domenica italiana.

In un mondo in cui tutto è già visto una delle possibilità rimaste di viaggiare davvero è esplorare le pagine dedicate a luoghi che, per un motivo o per l’altro, non esistono più se non nelle pagine dei libri. Questo è il paesino in cui è ambientato uno dei più bei romanzi del 900 e che ha dato i natali a chi lo scrisse ad appena 25 anni, vivendo quella storia, che in questo caso è anche La Storia, sulla sua pelle. Se tra un tuffo e l’altro sulla bella ma abusata costa istriana volete scoprire l’Istria profonda e la storia sofferta degli istriani, leggete “Materada” di Fulvio Tomizza e poi passate da qua, in quella che oggi è Croazia e domani chissà. Non c’è niente, direbbe il turista che qui infatti non arriva, eppure per noi viaggiatori letterari c’è di tutto.

Verso il sacro Monte Athos e oltre attraverso i Balcani sulla leggendaria Jadranska Magistrala, la Route 66 della ex Jugoslavia.

Sono tornato a Mostar dopo sette anni dalla prima volta. Si dice che oggi il suo piccolo e magnifico centro storico abbia la maggiore concentrazione di alberghi al mondo. Come a Sarajevo, il turismo si sta mangiando gli avanzi della guerra e anche stavolta i protagonisti sono soprattutto anglosassoni, come in Cambogia e Vietnam. Tra questi ragazzini spopolano i tour organizzati degli orrori, stragi commesse dalla generazione dei loro genitori e che i figli pagano profumatamente per vivificare, un’apoteosi del becero. Stavolta non sono passato dal confine sud di Medugorje e Kravice infestato da bus di pellegrini e camper, ma da quello desolato di Gorica, ad ovest, attraversando la campagna bosniaca con cupezza e stupore. Cupezza perché lungo questi 70 chilometri di cimiteri si vede che da qui è passata la guerra come una bestia che gira il mondo e non si ferma. Stupore perché la Bosnia è ammantata di questa strana poesia che mi farà tornare qui altre volte e non per chissà quale monumento ma per dei momenti che qui accadono ancora, nonostante tutto e da qui forse la loro forza particolare. Un’energia pazzesca che sale dalla terra e capisco che qui vicino milioni di persone di fede cattolica l’abbiano collegata alla fantomatica apparizione della Madonna come corrimano a cui aggrapparsi davanti a cose più grandi di noi. Io invece mi aggrappo ai tentativi degli uomini per testimoniare la tragica e beata mancanza radicale di un senso oltre al moto stesso della vita, ecco i torrenziali film di Kusturica, i versi incantati di Sarajlic, la monumentale Enciclopedia dei Morti di Kis eccetera perché io credo alla veggenza dei poeti e loro sembrano tutti d’accordo sul fatto che esista un unico immenso e potentissimo polo energetico chiamato “Balcani”. E a me pare che la Bosnia ne sia il centro e ho questo bisogno di scriverlo per continuare ad aggrapparmi mentre mi trovo nella pancia della balena, stavolta anche di vedermici dentro, io così refrattario alle foto nell’epoca della bulimia da selfies, vivo in questa sterminata terra di morti.

Ecco la Republika Srpska o Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Abbiamo attraversato enclavi segnalate da bandiere e interi territori con cartelli che ne segnalano questo confine nel confine che è un vulcano quiescente. La strada che passa sul confine² sud-est con il Montenegro è un inno al motociclismo, con tornanti morbidi che si avviluppano sui monti e lunghi dirizzoni che scorrono accanto a un plateau che ricorda quelli del Ladakh o del Tibet, ma verde, verdissimo, di cui posto la foto del giorno. Se il tappo della ex Jugoslavia dovesse saltare nuovamente, questo scenario bucolico sarà il primo a mutare in pece e già il pensiero di essere in una sorta di “nazione canaglia” mi crea curiosità ma anche inquietudine, così accelero verso il confine. Al nostro arrivo in Montenegro il commento del padrone di casa a Risan al racconto del nostro passaggio nella fantomatica Repubblica è stato allargare il braccio e agitarlo come la ruota di un mulino, come a dire “eh quelli lì se ne inventano sempre una nuova”, sbuffando spazientito verso il cielo nuvoloso sopra di noi. Poi mi dice che montenegrini e italiani sono simili, “siamo gente a cui piace vivere”. Invece “quelli più su”, indicando gli stati confinanti, “non si sa se amino di più la vita o la morte”.

Uno dei posti più belli del mondo, l’Isola di San Giorgio al centro delle Bocche di Cattaro in Montenegro, come un fiordo norvegese ma nel cuore del Mediterraneo . É “L’Isola dei Morti” di Böcklin in 3D, un capolavoro in varie versioni di cui una ha avuto la sfortuna di diventare il quadro preferito di Hitler che la compró a un’asta per esporla nella Cancelleria. Si vede nella foto della firma del patto tedesco-sovietico del 1939 che precede l’invasione della Polonia e in quella visita piacque talmente tanto a Stalin che quando i russi arrivarono a Berlino se la fece portare a Mosca come trofeo di guerra. Che quadro, che storie, che posti. E quando è tutto troppo in un solo posto io tendo a tornarci per tutta la vita. Sono solo a due.

La strada per il confine tra Montenegro e Albania è una mulattiera che si inerpica tra i monti e attraverso la campagna conduce tornante dopo tornante al Lago di Scutari e bisogna aspettare di passare il confine albanese affinché le cose migliorino, poi la deviazione per il paese di Shiroka e il lago inizia a definire il suo profilo, ed è un profilo sorprendentemente indiano. La luce è di un giallo febbrile come quella dell’India, le vacche pascolano smarrite sulla riva come sul Gange e anche, purtroppo, gli ultimi affondano nell’afrore della miseria entro baracche in cui nessun uomo dovrebbe vivere appena intorno alla graziosa cintura turistica. Ma soprattutto, questa prima fetta di Albania di orientale ha questo gusto per l’assurdo che diventa un vero e proprio apparato estetico, qualcosa che quando viaggio diventa interessante quanto la bellezza.

Sono le scelte che facciamo che ci dicono chi siamo, dice il saggio. Ma anche un bischero, a Porto Palermo, nel sud greco dell’Albania, un angolo di paradiso per il balneare ramingo, saprebbe cosa fare. E a tutti i motociclisti in linea: la strada da Valona a qui vale il viaggio.

Non posso certo dire di sapere dopo soli tre giorni cosa sia la Macedonia del Nord, ma quel che ho sentito mi è piaciuto. Il verde indomito inizia già dopo Elbasan, in Albania. E la strada per Bitola sembra la Modenese, in certi punti. Ocrida è deliziosa, con quelle casette che ti fanno sentire tra il Bhutan e Tblisi. Più viaggio e più il mondo mi sembra un unico villaggio e non c’è niente come viaggiare via terra per cogliere la diversità che sfuma lungo i meridiani, i paralleli e le storie dei luoghi. Il piatto forte è il lago omonimo, un mare con l’acqua dolce color smeraldo, punteggiato di capolavori del paesaggio come il tramonto alla Chiesa di San Giovanni Kaneo. Mi piacerebbe tornare qui, penso, mentre ci sono appena arrivato.

Tornare per la quarta volta in Grecia. Stavolta il Nord Est con Salonicco, la Calcidica e Limnos. Passato il confine con la Macedonia è come aver accorciato di migliaia di chilometri di sentimenti in comune la distanza da casa, anche se in realtà sono altri mille di strada verso est, e che strada. La Grecia è la mia India a portata di mano e allo stesso tempo un posto in cui sentirmi a casa in un posto lontano da casa, più queste raffiche di paradisi sempre diversi. Tra tanti scelgo di farvi vedere un angolo della baia di Kavaroutrypes, a Sithonia, uno dei tre denti della Calcidica, col mare di un celeste fosforescente. Quello laggiù è il Monte Athos, la montagna sacra degli ortodossi, in cui è difficilissimo essere accettati eppure domani sarò lì grazie a un’altra bella storia da raccontare. I viaggi ci scrivono addosso storie che non sapevamo essere anche nostre.

Finalmente la Montagna Sacra. Il Monte Athos non è soltanto uno dei luoghi più mistici e inaccessibili del pianeta, è uno stato nello stato con un proprio governo, che esprime la volontà dei 2000 monaci ritirati nei 20 monasteri abbarbicati su questa schiena di drago che emerge dalle acque, lontani da tutto. Per esempio la volontà millenaria di vietare l’ingresso a tutte le donne, contestata duramente dalla UE che però non può niente davanti a questa piccolissima ma potentissima teocrazia, in cui si segue la legge dell’antica Bisanzio. Sono riuscito ad ottenere il Diamonitirion, il visto concesso di rado dai monaci ai laici, altrimenti come tutti gli altri mi sarei dovuto tenere a una distanza minima di 200 metri dalla costa, per non disturbare la loro vita contemplativa. Ai monaci interessa accogliere soltanto chi dimostra intenzioni di ricerca spirituale nella sacralità del luogo e io sono grato che questo mi sia stato riconosciuto attraverso una lettera di presentazione in cui mi sono limitato a professarmi teologo, perché cardinale non me la sentivo. Scherzi a parte, ho avuto la fortuna di visitare due monasteri, attraversando la distanza che li separa con una camminata solitaria memorabile nei boschetti che salgono dalla costa punteggiata di cappelle. Sono stato lasciato sul molo del monastero di Dochiarou alle prime ore del mattino, unico a scendere dal traghetto. Non c’era nessuno intorno e due arcangeli di malachite mi fissavano dalle colonne di ingresso in un silenzio irreale. Per un attimo ho pensato di esser morto, che stessi vivendo i primi attimi del “dopo”, che quella fosse la porta dell’oltretomba tanto era forte la sensazione di entrare in un’altra dimensione. Quello che è successo dopo, varcato quel passaggio carico di presagi, nel sentiero verso il Monastero di Xenophontos e dentro la sua imponente cinta muraria, lo ricordo come un sogno. Il sogno di una montagna che ha un’energia abissale e svetta verso il cielo prorompendo verticale dal mare. Un Medioevo che perdura, nel bene e nel male – che non mi interessano – qualcosa che solo in Bhutan avevo accarezzato prima di oggi. Non dico altro sul mistero del Monte Athos, che merita di restare tale. O forse lo racconterò altrove, tra un po’, perché alla fine il mio mestiere sono le storie, le mie e quelle degli altri. Adesso l’unica cosa che so è che ho visto coi miei piccoli occhi le vite di questi monaci fuori dal tempo, che offrono la loro vita alla montagna sacra per qualche attimo di beatitudine. Sono scelte così diverse da quelle che facciamo nelle nostre vite. Niente mi affascina più di questa alterità.

Limnos ovvero non la “solita” isola greca.
A Gomati il deserto si tuffa nel Mediterraneo.

5000 km e 10 stati dopo, finalmente a casa mi rendo conto che questo mese è stato una centrifuga pazzesca di storie e di strade. E che strade… autostrade, panoramiche, strade bianche, rotte, in tempesta, sotto raffiche di bora e ancora. La moto, diceva John Berger, “è un’esperienza intensissima di libertà psichica e fisica”, e a volte anche di toscanissima bestemmia, ma ne vale la pena. Perché grazie alla velocità, e non intendo quella cretina di chi scambia le strade per piste ma l’esperienza dello slancio nudo verso l’orizzonte, avviene una fusione col mondo intorno che viaggiatori letterari più autorevoli di me accomunavano alla trascendenza religiosa. Ma il dio dei motociclisti è il paesaggio e le strade sono i nostri templi. E sono ovunque.

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